
Il caldo di un’estate afosa questa sera in palestra si fa sentire. L’armatura blu indaco che indosso, scura e minacciosa come quelle dei miei compagni di avventura, è intrisa di perle di sudore, segno evidente di fatica e impegno. E’ passato un anno dalla mia prima lezione diKendo, l’arte marziale giapponese per eccellenza e, seppur nei limiti di un principiante, sento di averne fatta di strada. Dai primi impacciati movimenti tutti tesi a rendere efficace quella strana camminata richiesta dalla disciplina, ai primi rudimenti di tecnica con la spada di bamboo imparati durante i freddi mesi invernali, ora mi trovo faccia a faccia in un divertente duello con un avversario in carne ed ossa. Due maestri giapponesi, che incutono grande rispetto, stanno tenendo una bellissima lezione di tecnica e, distraendomi un attimo, ripenso a qualche mese fa, quando, dopo un intenso allenamento, mi sono chiesto come mai, a trentotto anni, mi sia avventurato nella pratica del Kendo, senza trovare una risposta certa e cercando nei cassetti della memoria quale sia stata la molla che ha fatto scatenare questa mia ennesima passione, senza trovarne traccia; il Kendo però era un pensiero che serpeggiava nella mia mente da tanto tempo, ma prima gli studi, poi il lavoro e un forse inutile senso di inadeguatezza verso le arti marziali, non mi avevano mai fatto avvicinare a questa disciplina. A settembre del 2018, qualcosa è cambiato. La voglia di cimentarmi nelle arti marziali, cosa che non avevo mai fatto, è diventata forte e, chissà da dove, è riemerso quel bizzarro pensiero. Mesi dopo aver iniziato la pratica ne ho parlato con il mio maestro, il quale ha concluso,come in realtà inconsciamente sospettavo, che per certe domande non c’è una soluzione universale: non sei tu a cercare il Kendo, ma il Kendo, quando non te lo aspetti, ti trova.
E ti travolge.
Così ho iniziato, con l’entusiasmo dei primi allenamenti, a cercare notizie su questa antica arte di combattimento, ad appassionarmi ai termini specifici e a cercare di comprenderne gli aspetti tecnici e filosofici. Sto iniziando a capire solo ora, dopo un quasi un anno di pratica, quello che leggevo nei libri acquistati di fretta da neofita per colmare la voglia di conoscenza, ovvero che il Kendo non è solo attività fisica, ma concetto, filosofia, pensiero. Lentamente entra in te e ti accompagna anche negli aspetti più banali e pratici della vita. La svolta forse si nasconde proprio in quel primo momento in cui indossi l’armatura; hai aspettato quell’attimo già da qualche mese, guardando con occhi pieni di meraviglia i tuoi compagni più esperti, così veloci e luccicanti con quelle splendide corazze blu, mentre tu, impacciato e col tutone degli anni Ottanta cercavi di imitarne i movimenti, le danze di guerra codificate in secoli di storia giapponese. Calcare sulla testa il men, l’elmo dei samurai e stringerne con forza i lacci, già dalla prima volta, è una grande emozione. Corrono lungo il collo e la schiena, strette insieme dai nodi della corazza da guerriero, non solo le gocce di sudore, ma generazioni di guerrieri e un’intera tradizione di maestri di spada. Certo, sono ancora alle primissime armi e la fantasia corre veloce, ma ogni volta che indossi il bogu, l’armatura tradizionale giapponese, un vento leggero ti attraversa, ti fortifica, ti infonde tenacia e allo stesso tempo umiltà. Trovo infatti nel Kendo, al di là degli aspetti squisitamente sportivi, una forte caratura estetica; è infatti uno spettacolo emozionante e senza dubbio “esotico” vedere trenta o quaranta persone che, durante i raduni con altre associazioni di appassionati, combattono urlando l’una contro l’altra, con un grande senso di rispetto, amicizia e forza. Ed è forse l’aspetto più evidente e per l’appunto “estetico” del Kendo, l’armatura, che infonde questo senso di fratellanza e di rispetto reciproco. La lotta infatti, una volta indossata la corazza, è con te stesso, per migliorarti negli aspetti sportivi e soprattutto in quelli di vita e l’immagine di sé è tutta tesa a creare un aspetto tenace, rispettabile, leggero ed elegante. La stessa idea di iniziare e concludere gli allenamenti con la pratica meditativa è segno di una volontà di ricerca di sé. Sentire il proprio respiro, con gli occhi socchiusi, inginocchiato a terra e avvolto nelle vesti tradizionali giapponesi è emozionante ed alieno e permette al kendoka di trovare il vero ritmo della propria esistenza, in un momento fugace di grande tranquillità e armonia, con sé
stesso e con gli altri. Ovviamente la pratica settimanale di questa disciplina non è tutta rose e fiorie specialmente durante i primi allenamenti con l’armatura l’impatto è forte: si è infatti stretti in un elmo che può spaventare, ci sente impacciati e persi, si ansima, ci si fa prendere un po’ dal panico e le botte e i dolori non mancano. Credetemi però che si tratta solo di abitudine e che, una volta entrati nell’ottica della disciplina, il divertimento aumenta, così come le sensazioni. Con lo scorrere dei mesi è aumentata anche la richiesta di disciplina nell’approccio al kendo e trovo che anche questo aspetto rappresenti un grande valore ed un importante insegnamento; ho sempre sostenuto infatti, anche da insegnante, mestiere che svolgo da anni con passione, che la disciplina non sia sinonimo di repressione o coercizione, ma paradossalmente di libertà di agire. Chi trova la “propria”disciplina interiore infatti, pone lo sguardo “oltre”. Così il Kendo, in questo primo anno di pratica, mi ha spesso ricordato un grande aforisma di un anonimo filosofo greco: “la libertà si trova nella più ferrea disciplina”. Dopo un combattimento di kendo, che è la realizzazione di tutti i concetti che plasmano questa attività, come tecnica, spirito, respiro e certamente disciplina, ci si sente ristorati, appagati, in un certo senso “vuoti”, così come non lo siamo mai, turbati dagli affanni quotidiani.
Il Kendo, disciplina guerriera, è paradossalmente libertà.
Provare per credere.
Matteo Bendandi